L’artista sbagliato:
intervista a 360 gradi a Pino Boresta
di Cesare Biasini Selvaggi
Un artista o un temerario? Pino Boresta si racconta in
questa intervista a tutto tondo, dal sogno di sciare alle sconfitte virtuose,
per riscattare l'esistenza dalla banalità
“Un sovversivo, un artista controcorrente, un artista fuori
sistema, un artista irriverente, un artista borderline, un artista scomodo,
forse un artista sbagliato?”, scrisse Claudia Colasanti sul Fatto Quotidiano
“Boresta il più outsider di tutti”. Non so quale tra tutte queste definizioni
sia la più giusta, ma Pino Boresta è sicuramente un uomo che ha
voluto fare l’artista per prendersi il lusso di non nascondere le proprie
debolezze. «Non so se questo fa di me un artista di valore meritevole di
attenzione, o solo un temerario rompi palle, ma questo è», afferma Boresta. E
per conoscere meglio l’uomo e l’artista lo abbiamo intervistato a tutto tondo.
Dove sei nato e dove vivi?
«Io sono nato a Roma e posso ritenermi soddisfatto della
scelta fatta dal destino. Vivo però in provincia in un paesino a sud della
capitale. Una scelta fatta tanto tempo fa per questioni economiche. Per molti
anni, abbiamo vissuto in 5 persone in un appartamento di 40 mq su due piani e
il bagno era grande come una cabina doccia. Ora è diventato il mio studio».
Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?
«Credo che mi piacerebbe vivere a New York, ma non credo che
riuscirò mai neanche a visitarla, tantomeno a viverci, anche se non dispero
visto che ultimamente sono riuscito a realizzare l’altro mio sogno, che era
quello di ritornare a sciare dopo 35 anni. Infatti, a Capodanno per alcuni
giorni con i miei figli, sono riuscito a domare le dolomiti. È stato durissimo,
ma bellissimo anche in virtù del magnifico posto che mi ha fatto tornare
indietro alla mia gioventù spericolata. Purtroppo, al ritorno nonostante la
doppia dose di Pfizer, fatta solo tre mesi fa, è spuntato il COVID,
probabilmente Omicron. Se non altro questa condizione di confinato in camera, trattato
dai famigliari come lo scarafaggio di Kafka ogni qual volta mi affacciavo o
trovavano la porta semiaperta. Mi ha dato la possibilità di dedicarmi alla tua
intervista con la giusta concentrazione. Comunque, sto già migliorando».
Quando e come è nato il tuo interesse per l’arte?
«La verità è che una volta congedato dal servizio militare,
in realtà non sapevo esattamente cosa volessi fare della mia vita, fu allora
che pensai di iscrivermi a un corso di stilista di moda, dove ho incontrato un
professore di figurino, che in qualche modo mi ha iniziato al disegno. Poi mi
sono sempre più appassionato e il resto è venuto da sé. In seguito, sono
emigrato per un periodo a Londra per imparare la lingua, e lì ho continuato a
coltivare la mia passione per il disegno e la pittura. Tornato definitivamente
a vivere in Italia ho capito che quello dell’arte poteva essere un mondo a me
congeniale, che avrebbe potuto darmi la possibilità di esprimere ciò che
pensavo e sentivo. Ho voluto così tentare con le mie opere di mettere la mia
anima su un piatto d’argento».
Qual è stato l’incontro più significativo per la tua
formazione?
«Renato Mambor è stato uno tra i primi grandi artisti romani
che ho conosciuto, suggeritomi da Carolyn Christov-Bakargiev dopo avergli
mostrato una sorta di portfolio di alcuni miei lavori realizzati con la mia
ombra, mi disse: “Ma non conosci Mambor, Lombardo e Tacchi?” Io risposi di no.
Poco dopo andai a trovare Sergio Lombardo a Jartrakor nella sua galleria e
spazio sperimentale per l’arte, e lì conobbi Mambor, tutti gli Eventualisti, il
gruppo dei Piombinesi e Cesare Pietroiusti. Il resto è storia nota a molti: Il
Bollettino delle Disordinazioni di Giuliano Lombardo, I giochi del senso e/o
non senso, la Street Art, Il Progetto Oreste, l’Arte Relazionale, le mie
Performance Clandestine e i miei ArtBlitz. Ma un altro artista con il quale ho
avuto fin da subito una certa complicità, soprattutto per la stessa visione
critica nei confronti di un certo sistema dell’arte, è Pablo Eucharren. Lui ha
sempre trovato il mio lavoro di natura sovversiva particolarmente interessante,
e ne ha spesso parlato in diversi suoi articoli e libri: per questo debbo
essergliene riconoscente».
C’è stato un accadimento o un incontro così intenso da farti
cambiare il modo di guardare le cose?
«Ci sono due incontri che ricordo con particolare emozione e
che credo in qualche modo abbiano probabilmente influito sulla mia visione
delle cose nell’arte, anche se non spiegherò come, non in questa occasione. Uno
è quello che ho avuto con Wolfgang Laib, una splendida persona e un grande
artista che ho avuto il piacere di aiutare nella realizzazione di una delle sue
stanze rivestite di cera d’api. Era una mostra al Palazzo delle Esposizioni, e
ancora oggi ogni qual volta sento quel profumo di cera così particolare mi
ricordo di Wolfgang e di quella bella esperienza. L’altro, quello avuto con la
magnifica Marina Abramovic che conobbi in occasione della videoripresa che ho
fatto su richiesta di Mario Pieroni mentre eseguiva la sua installazione con
sangue di maiale: “Spirit Cooking” presso l’Associazione per l’arte
Contemporanea di Zerynthia a Paliano, in collaborazione con lo Studio Stefania
Miscetti. Il video si trova su YouTube e ha superato due milioni di
visualizzazioni. Alla fine del video mi si vede pure mentre con la fronte testo
un’altra sezione della sua installazione».
C’è una mostra (non tua) che ricordi con particolare
intensità?
«Quella di Luca Vitone a Villa Adriana e negli spazi del
MAXXI a cura di Andrea Bruciati e Anne Palopoli. Ho trovato le opere realizzate
bellissime e molto vicine alla mia sensibilità e interesse artistico».
Quali sono gli artisti e le opere che più ti hanno
influenzato?
«Dada, Situazionisti, Fluxus, Lettristi, Arte
comportamentale, Arte concettuale, Narrative art. Penso che in futuro il mondo
dell’arte sarà sempre più interessato alla ricostruzione della vita e del
percorso dell’artista (cosa che in genere già avviene, non certo nel mercato
dell’arte), che l’ha portato a generare opere significative e pregne di senso.
Forse è per questo che la parola e il linguaggio sta acquisendo sempre più
importanza all’interno delle indagini sperimentali di numerosi artisti
contemporanei, e più di uno sono gli artisti padri nobili, di questo tipo di ricerca
artistica. Tre dei più importanti sono sicuramente lo straordinario Joseph
Kossuth, il grande Lawrence Weiner scomparso da poco e la talentuosa e
provocatoria Barbara Krüger. Una parte della mia ricerca si è orientata in
questa direzione già alla fine degli anni duemila, ma ho esposto le opere
realizzate solo nel 2003. Indagine che è poi proseguita nel tempo, traducendo
anche in inglese e altre lingue alcune mie opere “Testamenti”, che qualcuno ha
definito dei calembours, ma che a mio avviso sono una sorta di dichiarazioni,
di ultimatum ironici e provocatori».
Qual è la tua giornata tipo?
«Se non capisci che quello che impari in ogni attimo della
tua giornata è utile per l’attimo seguente, è meglio che tu perda la speranza
di poter raggiungere i tuoi obiettivi. E questo puoi farlo solo se utilizzi una
visione speculare nei confronti delle esperienze, traslando da un caso a un
altro quello che capisci nei differenti contesti che ogni giorno ti trovi ad
affrontare. Ho conosciuto tanta gente certa di essere più intelligente di me,
ed aveva ragione. Ma, ahimè, ho anche visto un sacco di queste persone non
concludere niente di buono nel corso della loro esistenza, come alcuni
personaggi appartenenti al mondo dell’arte che, a causa del loro cinismo,
stanno divorando tutto quello di buono che avevano fatto e potevano continuare
a fare. Per questo motivo la storia potrebbe avere la tentazione a
dimenticarli, in quanto se non metti anche amore in quello che fai, sarà
difficile che la gente desideri ricordarti».
Hai dei riti particolari quando lavori?
«I frutti di una buona semina si raccolgono sempre in
seguito, ma il campo in cui si semina va protetto e difeso. Per fortuna io
preparo opere e progetti non solo in funzione di possibili mostre o
esposizioni, il che può anche accadere, ma per il piacere di farlo, perché
questo è il mio tentativo di esistere. Mi è capitato di vivere così
profondamente rannicchiato all’interno dei miei pensieri che a volte è successo
che dipingessi per 14, 16 ore di seguito senza accorgermi del tempo che era
scorso. Si dice che i folli non hanno la percezione del tempo o proprio per la
profonda consapevolezza che hanno di questo diventino degli alienati. Io non so
quale delle due sia la più vera, ma ho motivo di credere che la seconda sia
quella che agisce su molti artisti, e forse per questo in alcuni casi vengono
considerati quasi dei pazzi».
C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?
«L’imprevisto, la coincidenza e la casualità sono elementi
verso i quali pongo una particolare attenzione. Questo tipo di attitudine mi dà
la possibilità di scoprire schemi che altri non possono vedere, in quanto
avvengono nella mia mente particolarmente incline agli effetti apofenici. E
credo che questo sia il seme giusto per avere una prospettiva migliore nella
realizzazione di opere interessanti».
Hai mai paura di fare quello che fai?
«No! In genere non ho mai avuto paura; né nei i miei raid
artistici in importanti contesti ufficiali, dove ho urlato la mia verità, né
nel corso d’interventi urbani o di street art particolarmente azzardati. E mi
fa piacere sapere che, a detta di alcuni, in questa caotica giungla di adesivi,
che sono diventate le nostre città, le mie facce vengano considerate a 30 anni
di distanza dalla loro apparizione, gli stickers più estranianti. Ed in alcuni
casi, aggiungo io, gli unici interattivi dove si può scriverci su una propria
opinione. La differenza che c’è tra me e coloro che con i loro adesivi
trasformano i cartelli stradali in divertenti vignette è praticamente la stessa
che c’è tra un attore drammatico è un attore comico. Senza nulla contro la
nobile arte del comico. Del resto, ognuno ha le sue preferenze come è giusto
che sia, ma mi trovo d’accordo con Arthur Schopenhauer quando dice: “Ogni
verità passa attraverso tre fasi: all’inizio è ridicolizzata, poi è
violentemente contrastata, infine la si accetta come evidente”».
Hai mai avuto dei momenti di crisi durante il tuo percorso
artistico? Come li hai superati?
«Credo di dover ringraziare le numerose sconfitte subite per
l’artista che sono diventato. Le delusioni hanno forgiato il me che sono,
regalandomi la possibilità di realizzare opere e progetti che forse non avrei
mai pensato. Perché si sa che sono le necessità che ti fanno diventare
virtuoso, ma trovare le idee per i miei lavori non è mai stato un problema, ne
ho sempre avuto a profusione. Il problema piuttosto è quello di mettere in fila
le riflessioni e i pensieri su questi per poi trovare il giusto modo e momento
per utilizzarli. Il mio lavoro non è di difficile comprensione perché le mie
opere sono dirette e prive di orpelli. Per questo motivo non mi trovo mai a
dover far discorsi particolarmente intelligenti o farraginosi per
giustificarli. Le mie opere sono quello che sono e fanno semplicemente parte del
mio stile di vita. Questo spiega perché difficilmente mi preoccupo che
piacciano o meno. Del resto, la vita ha senso se riesci a trasformare la morte
in vita; è questo è quello che tento di fare con il mio lavoro».
Come descriveresti la tua ricerca?
«Forse un coacervo di ossessioni. Mi sono reso conto che
sono schiavo dell’accumulo compulsivo, tutto quello che mi circonda finisco
spesso per inglobarlo nelle mie opere, credo che mi renda più sopportabile lo
scorrere del tempo. Ho poi letto da qualche parte che quello che ha fatto la
differenza tra Homo Sapiens e altri ominidi che poi sono scomparsi è stato la
capacità di astrazione e quella dell’accumulo che posseggono i Sapiens. E io
non voglio certo che gli artisti scompaiano, anche se forse vi è qualcuno che
preferirebbe che alcuni di questi spariscano dalla scena».
Qual è il filo della tua ricerca e le sue pratiche?
«Spesso l’opera di un artista può sembrare narcisa, ma in
realtà non è niente altro che la presa di coscienza di sé stesso e della
propria inquietudine. Consapevolezza che non deve assolutamente ignorare, in
quanto necessaria per potersi immergere, leggere e decifrare i nuovi valori
universali che di volta in volta si presentano e si manifestano nella
modernità. Sarà solo così che riuscirà a trovare il bandolo della matassa e a
trasformare tutto il materiale confuso che la società mette a sua disposizione,
in qualcosa che abbia una forma espressiva che, se pur non chiara, definita e
definitiva, almeno leggibile, e quindi analizzabile e studiabile».
A che punto decidi che un tuo lavoro è finito?
«Io credo che uno dei principali obiettivi dell’arte sia
quello di offrire allo spettatore, più che delle immagini, dei pensieri su cui
riflettere. Del resto, un quadro, un libro, un film, una canzone, etc.,
acquisiscono senso solo nel momento in cui qualcuno ne fruisce. Gli artisti
offrono questa opportunità di allungare lo sguardo su quello che hanno scovato
e costruito, affinché chi voglia possa in qualche modo avere la possibilità di
partecipare a una loro avventura o a quella di qualcun altro, non ha
importanza. L’importante e che riescano a confezionare qualcosa di speciale, di
qualità. Ecco, è a questo punto, nel momento in cui un artista crede di essere
riuscito in questo, che a mio parere deve fermarsi, ed è a questo punto che lo
spettatore mette in atto la propria scelta e decide se intraprendere, oppure
no, quel viaggio che lo porterebbe vicino all’anima e al pensiero
dell’artista».
Mi parli della fisicità concreta nel tuo lavoro?
«“Io credo che la possibilità di creare facilmente opere in
serie insolite, che ci permettono i nuovi dispositivi e congegni tecnologici,
vadano concepite per la loro potenzialità. E non bisogna snaturarne il loro
processo di valorizzazione cercando di applicare su di esse canoni ormai
sorpassati come quello dell’unicità e della irriproducibilità dell’opera.
Pertanto, coloro che sapranno mettere queste opportunità al servizio di
un’immagine audace saranno i validi creatori non di domani ma di oggi.” Ho
scritto questo qualche anno fa, e il successo che ora le opere NTF stanno
avendo, è la dimostrazione del fatto che qualcosa avevo già compreso. Se poi mi
chiedi se questa nuova forma d’arte mi piaccia, devo dirti sinceramente che
preferisco le opere che nascono dall’impulso inconscio dell’artista, che con
un’intuizione rende consapevole a sé e agli altri, più che la complessità del
mondo, la complessità dei pensieri degli esseri umani, i quali nel procedere da
un punto a un altro disegnano quello che diventa il segmento di un’esistenza.
Così come, per esempio, faceva il mio amico Francesco Melone, un artista che
giocando con l’idealizzazione della famiglia borghese era riuscito a
smascherare le ipocrisie di una società delle apparenze. Francesco, morto
improvvisamente alla fine del 2021, avrebbe meritato un’attenzione maggiore
dalla critica dell’arte».
Quali sono le ricerche che più ti rappresentano e meglio
trattano le tue aspettative?
«Credo che si possa riconoscere l’importanza e la validità di azioni artistiche, quanto più queste siano sincere e aderenti alla ricerca dell’artista, giacché in questo modo manifestano valenze filosofiche che possono far riflettere più generalmente sulla vita di ognuno di noi. L’assegnazione del premio Nobel 2021 per la fisica a Giorgio Parisi è la prova che viviamo sempre più in una condizione dove il caos diventa il presupposto all’interno del quale dobbiamo imparare a vivere o a sopravvivere. Per questo assume importanza dare la giusta attenzione alle nuove forme d’arte. Nuove, ma neanche tanto nuove, come la performance, la street art, l’arte comportamentale e tutte quelle forme d’arte che mettono in atto un’esperienza diretta con l’opera d’arte. In quanto è tra queste che potremmo trovare la direzione che ci indirizzi più consapevolmente alla comprensione di quello che sta avvenendo intorno a noi. Spesso capita che le azioni artistiche più interessanti siano quelle clandestine, quelle non autorizzate. Ma si sa che, come in tutti i casi in cui non ci siano grossi interessi economici, o addirittura gli interessi siano contrapposti, diventa difficile che qualcuno abbia la lungimiranza di scegliere di parlare della validità e dell’importanza di azioni non sponsorizzate. Specialmente da coloro che considerano i singoli individui insignificanti ma necessari consumatori. Per cui, sono quelle interne all’arte relazionale le nuove forme d’arte necessarie per riesaminare, aggiornare e risolvere i problemi dell’arte. Solo rinnovando i linguaggi artistici divenuti desueti e insufficienti per la rappresentazione delle nuove istanze della contemporaneità e del contemporaneo, riusciremo a mettere sotto una luce più appropriata le nuove complessità dell’esistenza, evitando di cadere in manierismi inutili e fini a sé stessi, cosa che purtroppo nel mondo dell’arte avviene ancora spesso».
In quale direzione sta andando la tua ricerca artistica?
«Fin da quando ho cominciato a fare arte relazionale, il mio
tentativo è sempre stato quello di svincolare il giudizio del pubblico
dell’arte contemporanea da quello dei critici. Volevo e vorrei che ognuno possa
costruirsi un proprio giudizio sul mio operato che non sia condizionato
dall’interpretazione del critico di turno che potrebbe non essere scevro da
condizionamenti pregiudiziali nei miei confronti. E che potrebbero solo inibire
una sincera analisi del mio operato, non offrendo un buon servizio al mondo e
al pubblico dell’arte».
Mi racconti un tuo progetto o una tua opera nella quale
individui un incontro positivo tra il tuo racconto e la sua materializzazione?
«Sono sicuramente “Firma Boresta” e “SOS Boresta”. Due
progetti di Arte Relazionale al quale sono particolarmente affezionato in
quanto fanno parte di due momenti di singolare fragilità della mia vita.
Il primo è una campagna di raccolta firme in mio favore per
partecipare alla 53° Biennale di Venezia che quell’anno era diretta da Daniel
Birnbaum, e al quale inviai le 1.000 adesioni raccolte in diversi eventi
artistici in tutt’Italia in due anni. Daniel non mi invitò, ma il progetto è
ricordato da molti come un’operazione artistica riuscita che ha lasciato un
segno, oltre ad aver rilanciato una discussione sempre aperta come quella sulle
scelte che vengono fatte in questi grandi e importanti eventi quale la Biennale
di Venezia.
Il secondo è una campagna di crowdfunding da me organizzato
per la raccolta di 10.000 euro che servivano a salvare dallo sfratto me e la
mia famiglia. A chi aderì con una donazione, a seconda dell’importo, inviai una
busta dei miei famosi adesivi o delle mie opere. Inoltre, qualora fosse stato
raggiunto il target, una mia opera di pari valore sarebbe stata donata al museo
di Spoleto di Palazzo Collicola Arti Visive allora diretto da Gianluca
Marziani. L’obbiettivo non fu raggiunto, ma le donazioni insieme al grande
aiuto di una nostra cara amica di famiglia fece in modo che potemmo superare
questo bruttissimo momento. Anche questo progetto è rimasto nella memoria
collettiva del pubblico dell’arte. Due progetti che comunque sono stati per me
formativi e mi hanno dato l’opportunità di capire molte cose sugli addetti ai
lavori, sugli spettatori, gli amici e sui nemici di questo mondo. Credo,
inoltre di aver contribuito alla valorizzazione dell’Arte Relazionale
dimostrando che un’esperienza può divenire un’opera d’arte che lascia molte
tracce e documenti di valore».
Quali sono gli strumenti preferenziali per lo sviluppo del
tuo lavoro?
«A volte ho il sospetto che l’importanza della mia esistenza
non risieda tanto nelle mie opere, quanto piuttosto nello stile di vita e nel
tipo di introspezione che pongo nei confronti dell’esistenza. Una filosofia di
vita che mi spinge ad appuntarmi costantemente ovunque i pensieri e le
riflessioni che si manifestano nella mente. In genere, sono foglietti dove
riporto circostanze, avvenimenti, asserzioni, ponderazioni, valutazioni,
lamentele, congetture, etc. Di tanto in tanto cerco di mettere ordine a
questo mare di fogli e foglietti per poi trascrivermeli su delle agende, ma è
una follia, sono dappertutto: sul tavolo, sopra il PC, in camera da letto,
nella libreria, in salotto, nei cassetti, in vari raccoglitori, dentro dei
quaderni, nei libri, in delle riviste, in delle cartelline, dentro delle buste,
in varie attaches, mollette e porta carte. Il fatto divertente è che a volte
quando li vado a rileggere non capisco cosa ho scritto, e la mia figlia più
piccola (Anisia che ora ha 18 anni da poco compiuti) è un portento, e ha sviluppato la
capacità, tra le diverse che ha, di riuscire a capire anche le parole e le
frasi che io stesso, a volte rileggendo, non riesco a decifrare. Non so come
faccia. Ho inoltre una serie di manie che consistono nel contare, misurare,
conservare e ammassare praticamente di tutto: dalle etichette dei capi
d’abbigliamento agli scontrini della spesa, dalle unghie tagliate ai tappi di
dentifricio. Una volta che inizio ad accumulare qualcosa, spesso senza
ricordare neanche il perché, non riesco più a smettere. Ultimamente mi sono
ricordato che incominciai a serbare i tappi del dentifricio perché mio figlio,
dopo aver visto un castello costruito con i tappi di dentifricio nel film “La
fabbrica di cioccolato” mi chiese di farne uno. Ora Mairo si è laureato ed io
continuo a non buttare i tappi. Una volta ho sentito dire da un accumulatore
compulsivo che lui faceva quello che faceva perché era una scommessa con sé
stesso, forse anche io potrei dire la stessa cosa, ma non saprei dire che tipo
di scommessa. La verità è che poi nel tempo spesso utilizzo tutto quello che ho
conservato per fare delle opere. Per questo non riesco a disfarmi quasi di
nulla. Nel 1998, per parlare del mio progetto R.A.U. Reperti Arteologici
Urbani, ho realizzato una foto plotter con la mia primogenita Soele che allora
aveva circa 2 anni, dove dico: “Come faccio a dire a mia figlia che non
deve toccare la robaccia per terra in strada? Come faccio a dire che può farlo
solo il papà, perché fa l’artista.”. Ecco, grazie a questa attitudine,
riesco a realizzare opere d’arte che hanno una storia e dicono la loro. E forse
il valore delle opere di un artista andrebbero lette anche alla luce di questo
tipo di confessioni. Le Corbusier ha detto che soltanto un’ossessione può
riscattare l’esistenza da una banalità. Questo potrebbe essere un altro motivo
del mio agire».
Qual è la tua mostra a cui sei più affezionato?
«La mia personale del 2003 al MLAC-Museo Laboratorio di Arte
Contemporanea dell’Università La Sapienza di Roma che, all’epoca, era diretto
da Simonetta Lux. La mostra, a cura di Domenico Scudero e Silvia Biagi, si
intitolava “Artisti & Co.”. Insieme ai lavori intitolati “Testamenti”, che
presentavo per la prima volta, esposi anche 30 ritratti a olio di artisti,
critici e galleristi tratti dalle figurine del mio progetto dell’Album di
Oreste Uno del 1998. Una sorta di libro d’artista dove sono riportati tutti i
personaggi che parteciparono alle prime due edizioni del Progetto Oreste che si
tenne a Paliano, un paesino vicino a dove vivo io. Il progetto nel 1999 fu
invitato alla 48° Biennale di Venezia da Harald Szeemann».
Con quale artista del presente o del passato vorresti fare
un duetto artistico? Un progetto a quattro mani?
«Un artista del presente con il quale mi piacerebbe avere
una collaborazione è Gian Maria Tosatti che in post così mi scrisse: “Caro
Pino, io non credo che tu sia odiato. Credo anzi, che sia molta la stima che il
mondo dell’arte ti porta per il lavoro da precursore che hai compiuto. Io credo
che la cosa ti venga anche riconosciuta nei limiti del fatto che tu per primo
hai declinato la tua personalità artistica in modo borderline e fuori sistema.
Ma questo era funzionale alla tua pratica e alla tua pratica espressiva. Per
cui forse non hai avuto una consacrazione a livello di sistema (avendo tu
lavorato radicalmente fuori da esso), ma penso che l’arte non sia il sistema.
Il sistema è solo la sua regione economicamente ricca. La storia dell’arte è
altro. E credo che il tuo posto ti venga riconosciuto da molti nelle pagine di
storia dell’arte di questi decenni.”
Mentre gli artisti del passato con quale sarebbe stato
fantastico collaborare sono due; l’ineguagliabile e immenso Joseph Beuys, il
cui lavoro viene magnificamente valorizzato dalla brava Lucrezia De Domizio
Durini e dalla sua Fondazione, e il geniale e insuperabile Alighiero Boetti, il
cui lavoro è magistralmente gestito dai figli Matteo e Agata».
Tra i tuoi progetti e le mostre realizzate, cosa ti ha dato
più soddisfazione e, al contrario, più delusione?
«È stata motivo di soddisfazione, ma anche di delusione “Il
Boresta che non ti aspetti”. Un progetto che avevo in mente da diverso tempo ma
che a causa della pandemia siamo riusciti a realizzare solo in parte ad inizio
2021. Doveva essere un ciclo di mostre con il quale valorizzare alcuni momenti
importanti del mio lavoro artistico. Invitavo a esporre con me anche artisti di
cui stimo il lavoro, come Flavio Favelli, Salvatore Falci, Cesare Viel. Nella
galleria Micro di Paola Valori con la cura di Raffaele Gavarro siamo comunque
riusciti, durante la prima mostra dei “Tovaglioli” (quadri da me realizzati in
gioventù a Londra allorché facevo il cameriere) a organizzare un’azione di arte
relazionale intitolata “Serve! Boresta”. Una performance piuttosto riuscita e
apprezzata alla quale hai partecipato anche tu oltre a Daniela Lancioni,
Adriana Polveroni, Cecilia Casorati, Ludovico Pratesi, Beatrice Bertini,
Claudio Libero Pisano, Carlo Alberto Bucci, Francesco Impellizzeri, Liliana
Maniero, Ivan Barlafante, Antonio Arévalo, Valentina Ciarallo. E per questo
ringrazio te come tutti loro. L’azione artistica consisteva in una serie di
pranzi al buio. Al buio nel senso che i quattro commensali non sapevano con chi
altri del mondo dell’arte avrebbero desinato, ma sapevano che circondati dalle
mie opere sarebbero stati serviti dal sottoscritto. E loro stessi partecipavano
e facevano parte dell’happening che in qualche modo obliteravano firmando il
tovagliolo usato durante il convivio al termine di questo, divenendo così opere
testimoniali».
Quanto è importante per un artista contemporaneo il rapporto
con l’arte del passato?
«Molti sono gli artisti del passato che per me sono stati e
sono un punto di riferimento. Noi che veniamo dopo di loro, in qualche modo,
siamo quasi obbligati a continuare il lavoro che ci hanno indicato. Non
potremmo fare diversamente. Logicamente siamo condizionati e influenzati da tutto
ciò che di nuovo oggi ci circonda, e che loro non avevano e non potevano
vedere, ma che in qualche caso avevano previsto, perché se esiste una facoltà
della quale sono dotati tutti i grandi artisti, questa è sicuramente
l’accentuata visionarietà. Per cui trovo giusto che molti artisti odierni
trovino il coraggio di prendere il testimone da questi grandi del passato e
mostrino la loro visione sulle cose e sui fatti nel tentativo di capire dove
stiamo andando. Io, in qualche modo, credo di averlo fatto con Arnulf Rainer.
Il problema è che qualcuno imbocca la strada giusta e dà vita a opere di
valore, altri prendono strade sbagliate e danno vita solo a oggetti
commerciali. Del resto, come disse Giorgio Gaber “Gli artisti si dividono
in quelli che vogliono passare alla storia e quelli che si accontentano di
passare alla cassa”».
Qual è la critica più forte che senti di fare al sistema
della cultura e dell’arte di oggi?
«Purtroppo, ogni volta che il cambiamento sembra si stia imponendo avviene invece che gli artisti che vengono scelti siano sempre gli stessi, e tutto si appiattisce verso le esigenze dell’Art System. Accade così che anche il nuovo finisce per fare l’occhiolino proprio a quel sistema che prima criticava. Trovo che questo sia molto preoccupante perché ciò significherebbe che non esistono più persone veramente sincere. Qualcuno sostiene che tutto è politica, e la politica dell’arte non si differenzia da quella dei politicanti veri e propri. Io, però, voglio continuare a credere che non sia così. È giusto che ognuno sostenga gli artisti amici che stima di più. Tuttavia, sarebbe altrettanto bello che una volta tanto qualcuno riuscisse anche a dare seguito a quello che sosteneva nei confronti di un sistema dell’arte che ha sempre duramente criticato. Potremmo così sperare che anche questa volta non si ricada nella solita storia del paese del Gattopardo. Del resto, un artista, tanto più se di valore, ha il diritto di ambire a qualche gratifica. Nessun artista è insensibile al riconoscimento del proprio lavoro. Per questo bisogna cercare che il sistema cambi il modo in cui tratta certi artisti. Staremo a vedere cosa succede anche questa volta, ma le premesse non mi sembrano le migliori».
Che cosa pensi del rapporto tra l’arte contemporanea e la
politica?
«Si dice: “La politica è un lavoro sporco, ma qualcuno
deve pur farlo”. Ecco! credo che la stessa cosa valga per gli artisti che
hanno il coraggio di criticarla. Credo che un artista abbia il diritto di dire
la sua su tutto ciò che lo circonda. A volte può essere un lavoro scomodo e, in
alcuni casi, anche pericoloso, rischiando l’emarginazione da un certo tipo di
mondo dell’arte che conta. A volte ho l’impressione che sia ciò che accaduto a
me con il mio lavoro M.E.R.d.A.-Manifesti Elettorali Rettificati da Asporto.
Una mostra che sono riuscito a realizzare solo dopo molto tempo grazie alla
gallerista Rossella Alessandrucci e al Macro Asilo di Giorgio de Finis: due
contesti probabilmente non molto graditi al sistema dell’arte ufficiale, e devo
ringraziare il loro coraggio. Ma io per questo non odio nessuno perché, come
dice Ellis nel film “Non è un paese per vecchi”, “Tutto il tempo che passi
a cercare di riprendere quello che ti hanno portato via è solo tempo sprecato.
Devi fare in modo che la ferita non sanguini più. Cercare di riprenderti ciò
che ti hanno portato via è solo tempo perso e dopo un po’ è meglio metterci una
pietra sopra”».
L’arte contemporanea ha ancora un valore etico e morale
nella società contemporanea?
«Qualcuno sostiene che si potrebbe anche smettere di produrre opere d’arte, ma questo è assurdo. Sarebbe come dire che si può smettere di scrivere libri. Ammesso, e non concesso, che fossi d’accordo, io proprio non ci riuscirei. Continuo a produrre opere nonostante oggi come oggi per fare l’artista, non ve ne sia bisogno. A volte vorrei smettere, eppure non ci riesco, è più forte di me. Credo che sia una questione d’imprinting, come quello delle formiche e delle api: loro non possono fare a meno di fare il lavoro per il quale sono nate. E io sento che non posso fare a meno di fare quello che faccio. È una sorta d’istinto primigenio che mi spinge in quella direzione e non so da dove provenga, probabilmente è qualcosa che fa parte di molti di noi dal momento della nascita. Ho letto dello studio di alcuni scienziati che sostengono che quanto più la nostra vita è generativa tanto più siamo felici. Questo potrebbe essere il motivo che spinge tanti artisti a produrre opere con la speranza, magari, di poter sciogliere qualche dubbio esistenziale».
Pensi che l’artista sia ancora in grado di incidere sulla
realtà?
«Penso di sì, ma bisogna possedere una certa vocazione nei
confronti di quello che ci circonda, reale o irreale che sia. Ritengo che se si
possiede una giusta predisposizione alla serendipity si ha l’opportunità di
scoprire cose inaspettate, o di trovare la soluzione a qualcosa alla quale
stavi già lavorando. È così che si manifesta il quid del genio».
Qual è il tuo atteggiamento verso la spiritualità e la
religione?
«Le civiltà si evolvono e ogni nuova civiltà pretende la sua
nuova forma d’arte, è questo quello che succede in virtù delle istanze
esistenziali che cambiano, e le società cambiano queste istanze continuamente.
Per questo credo che l’arte contemporanea, da un certo punto di vista, sia
stata un deterrente che ha frenato il nascere continuo di nuove religioni di
cui il genere umano, a mio parere, non sempre ha bisogno o avrebbe avuto
bisogno. Sarebbe stato in molti casi meglio e più utile riporre fiducia nella
scienza. Quindi è proprio qui con la rinuncia alle religioni che forse l’uomo
può trovare la possibilità di evolvere più velocemente, anche se la storia ci
insegna che a volte non è stato così. E poi c’è anche il problema del
proliferare dei falsi Messia e Profeti anche nel mondo dell’arte».
Individuo e società: cosa ti affascina di questi due mondi?
In che rapporto sono tra di loro e con il tuo lavoro?
«In una società dell’immagine imperante e prepotente come
quella che stiamo vivendo, credo che l’unica possibilità di salvezza che ha un
artista come individuo sia oggi quella di rivolgere attenzione alle nuove forme
d’arte che gli vengono suggerite dall’intuito. Ritengo che così si avrà modo di
estrarre zone autentiche e di universale interesse a beneficio di una società
futura composta da una collettività sempre più complessa e avanzata. È così che
nasce la mia serie concernente opere con residui corporei: sono tracce
biologiche del mio corpo (in seguito non solo mie) che inizialmente usavo in
combinazione con tecniche tradizionali per la realizzazione di quadri, poi
utilizzate anche come forma d’autentica per le mie opere. Finendo quindi per
divenire un progetto a sé stante che ha avuto e continua ad avere interessanti
sviluppi tutt’oggi in corso».
Cos’è per te oggi veramente contemporaneo?
«Le origini e i miti primari sono si parte di noi, che credo
non debbano farci temere il confronto con l’uomo moderno sempre più proiettato
verso la superfice cosmica».
L’attuale esperienza dell’emergenza sanitaria del covid-19
quale riflessione ti ha fatto maturare sul tuo lavoro artistico, sul tuo ruolo
d’artista, sul senso dell’arte e della vita più in generale?
«Una volta l’arte veniva percepita più che altro come una
forma di pura emozione. Probabilmente pure oggi è ancora così, ma questo non è
più sufficiente per soddisfare le esigenze emotive e la sete di conoscenza
dell’uomo contemporaneo. Anzi, oserei dire dell’uomo spaziale che
inaspettatamente si trova a confrontarsi con incognite troppo a lungo
sottovalutate, come quella dei virus. E noi, che forse siamo un virus venuto
dallo spazio che ha colonizzato questa terra, dovremmo incominciare a prenderci
realmente cura del nostro pianeta: non vedo la possibilità di un piano B».
Come vedi il futuro?
«Non credo che il futuro dell’arte possa essere incarnato o
continuare a essere incarnato da opere provocatorie come banane attaccate al
muro o chissà che altro. Se si considerano, però, l’orinatoio di Duchamp e le
scatolette di merda di Manzoni opere provocatorie, allora sì! Ma qui abbandono
la palla e la lascio a chi vorrà scriverci il milionesimo libro su Marcel.
Mi chiedo, tuttavia, cosa succederebbe se il pubblico
dell’arte che conta smetteste di entusiasmarsi per la spettacolarità che alcune
opere rivestono? Cosa accadrebbe a tutti quegli artisti che grazie a queste e
su queste hanno edificato il loro successo? Probabilmente non avverrà mai, sono
troppi gli interessi che vi ruotano intorno, e il mondo dell’arte si è sempre
nutrito di sensazionalismi, per cui se un limite invalicabile non esiste,
quello che ci rimane è sperare che almeno si cominci a fare una distinzione tra
arte da avanspettacolo e un’arte che poggi le sue basi su altri valori e
significati. Questo potrebbe in qualche modo arginare il proliferare di boutade
artistiche, e l’arte vera non potrebbe che giovarne».
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