domenica 10 dicembre 2023

Edwige Comoy Fusaro

 




Edwige Comoy Fusaro intervista Pino Boresta alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, il 29/11/2017

 

Come definisci il tuo lavoro: street art, arte urbana, arte contemporanea?

La street art è molto variegata, e si manifesta in varie forme come: i graffiti, il writing, la sticker art, la stencil art, i manifesti etc.

Il lavoro di strada è stato spesso per molti un’attività provvisoria. Diversi artisti hanno così deciso di iniziare la loro carriera, e molti sono i giovani che iniziano mostrando le loro opere in strada per farsi un nome, è questo un modo farsi conoscere. Questo perché è difficile entrare immediatamente nel mondo chiuso delle gallerie, e delle fantasmagoriche mostre che all’interno di questi spazzi si svolgono, anche se oggi forse, non è più così, ma sicuramente lo era una volta. Sono poi molti quelli che finiscono per lavorare come illustratori, nella graphic art o altro, ma pochi saranno quelli che confluiranno nel mondo dell’arte contemporanea, ma anche qui forse non è più così, ma lo era sicuramente una volta.

Io ho fatto un po’ il contrario. Sono geometra (il diploma dice così) ed ho sempre disegnato. A Firenze negli anni ‘80 ero affascinato dai ritrattisti che disegnavano sotto Palazzo degli Uffizi nella piazza. Come artista ho avuto un excursus tradizionale, passando dalla pittura figurativa all’espressionismo, all’astrattismo, all’arte concettuale, all’arte relazionale ed in infine approdo anche in strada. Certe letture sono state per me decisive, come la “Psicopatologia della vita quotidiana” e “Totem e tabù” entrambe di Sigmund Freud, “1984” di George Orwell ha esercitato un’influenza determinante su di me, e “No logo” di Naomi Klein è stato importante per capire quello che già da molto tempo avevo incominciato a fare. Per questo è nato il mio progetto di Web Art “No Logo CUS”. Un progetto dove ci sono citazioni del libro e foto dei miei interventi di street art che dialogano tra loro.

Inizialmente sono stato molto influenzato da altri artisti come: Kokoschka, Schiele, Klimt, Klee o Soutine, per esempio. Ed altri mi hanno influenzato nel prosieguo della ricerca artistica come: lo scultore Franz Xaver Messerschmidt, le smorfie fotografiche di Arnulf Rainer, i manifesti di Mimmo Rotella, e poi i lavori di Alighiero Boetti etc.

Infine, ci sono poi le scoperte decisive: che per quanto mi riguarda è stata la fotocopiatrice che ha condizionato e determinato la produzione delle mie opere e del mio agire artistico.

 


Qual è la storia delle tue smorfie?

Le smorfie sono otto o nove in tutto, sempre le stesse, alcune con l’etichetta interattiva e altre senza. Le foto sono state fatte intorno al 1990. Poi all’inizio degli anni ’90 ho cominciato ad usare alcune di queste foto in delle installazioni artistiche ed regalarne alcune ai miei amici. Subito dopo ho incominciato a produrre degli adesivi incollando le facce per le strade: volevo un incontro diretto e immediato con il fruitore. Volevo fare a meno della galleria, del curatore, di tutti gli intermediari, insomma, se altri hanno fatto la stessa cosa dopo di me, significa che il mio lavoro è arrivato, ha bucato, come si suole dire. Avevo anche realizzato un volantino che era una sorta di manifesto ed istruzioni per l’uso.

Il viso con la smorfia ha la funzione di catturare l’attenzione per interpellare su una tematica particolare: chi cammina per strada ed è distratto da mille altre cose, a cominciare dalla pubblicità. La mia faccia da cazzo aveva ed ha il compito di catturare l’attenzione e dare modo di riflettere sulla questione della propaganda Capitalista e quella di Stato. Questo perché sono sempre stato molto infastidito dalla sovrabbondanza della pubblicità, e volevo contrastare l’influenza che la pubblicità esercita sulla gente. Bisogna essere consapevoli di quell’influenza, capirla ed imparare a gestirla.

 


Perché le facce? Perché alcune sono interattive e altre no?

L’adesivo interattivo è l’evoluzione ramificata delle facce non interattive.

L’opera nasce dalla necessità di esistere e renderlo tangibile anche a sé stessi. Viene da una frustrazione, perché sono un artista ma non sono inserito nel mondo dell’arte. E poi mi diverte incollare la mia faccia dappertutto. A chi mi dice che l’opera è narcisistica, rispondo che è anche soprattutto autolesionista perché espongo la mia immagine in balia della gente e la offro loro in pasto, proprio lì dove ognuno può farne quello che vuole. Eccola! L’effige del mio viso alla mercé di chiunque dove chiunque può: scarabocchiarla, modificarla, strapparla, distruggerla, scriverci su un insulto, addirittura sputarci su (qualcuno ci ha attaccato una gomma da masticare). Effettivamente quasi il 40% delle scritte sulle etichette interattive sono insulti o parolacce. Quindi non vi è solo una forma di narcisismo, ma credo vi sia anche e soprattutto una buona dose di autolesionismo, autodistruzione.

 


Con gli adesivi interattivi dov’è l’opera d’arte: prima della scritta o dopo?

Il futuro dell’opera è necessario nel completamento dell’opera d’arte. Mi affascina l’idea che da un lavoro nasca un altro lavoro. Anche il degrado a cui sono sottoposti gli adesivi dovuto al tempo e alle intemperie è bello. È bello perché l’adesivo logorato diventa un’altra cosa, e mostra vantandosene, il passare del tempo. Lo scorrere del tempo è un altro tema centrale di tutta la mia ricerca artistica. Esistono varie forme di deterioramento, e le trovo tutte interessanti. Spesso recupero e colleziono tutti i vari adesivi rovinati che mi capita di ritrovare, oltre chiaramente, quelli dove è stato scritto sopra qualcosa, e li conservo nel mio studio.

Un altro mio progetto si chiamava Ticket Project Art Erano biglietti di autobus da obliterare, sui quali avevo scritto che sarebbero diventati opere d’arte se convalidati quel giorno preciso (e mettevo una data ovviamente posteriore al momento in cui distribuivo i biglietti). Affiggevo volantini con le istruzioni alle fermate dei bus e vicino alle macchine obliteratrici sugli autobus.

Ho ripetuto il progetto più volte nel corso degli anni ’90 (ed un paio di volte dopo il 2000). È poi accaduto che l’agenzia dei trasporti negli anni ha cambiato forma e design dei biglietti, accrescendo il valore di quelli già diventati opere d’arte che in questo modo acquisivano un valore aggiunto in quanto rari pezzi di storia del trasporto urbano. Varie persone hanno partecipato ed io stesso ho obliterato molti biglietti. Purtroppo, ho il pallino del collezionismo, e sono un accumulatore seriale.

 


Perché lavorare in modo clandestino?

Io sono appassionato d’arte e volevo esserci. La strada è un’alternativa al sistema delle mostre, è un cortocircuito. Ho spesso praticato l’intrusione abusiva. Mi infiltravo in manifestazioni e mostre organizzate da, e per altri artisti, e distribuivo volantini all’opening. Poi, ovunque vada incollo i miei adesivi dappertutto, e soprattutto nelle città in cui si svolgono eventi e manifestazioni artistiche: vado sempre alla Biennale di Venezia, ad ArteFiera a Bologna, ad Artissima a Torino etc.

La disseminazione delle mie facce consiste in bombing per contrastare in qualche modo il bombardamento continuo e ovunque della pubblicità.

Quando poi mi è sorta la mia passione per Internet: la strada non mi bastava più. Ho spedito molte e-mail utilizzando lo spam. Mi sono interessato alla Web Art e Net Art aprendo anche un Blog e Sito. Ho fatto lavori autoprodotti creati per il web e che vivono soltanto lì. Cerco di coinvolgere il pubblico della rete, domandando loro cosa pensano e cosa pensano riguardo determinate questioni.

La Street Art in Italia ha particolarità che non ha altrove?

No! Anzi sì! Questa particolarità si chiama pino boresta mania.

C’è una domanda che non ho fatto ma a cui ti piacerebbe rispondere? 

No! Anzi sì! Domanda: Sei felice di essere considerato, oltre che uno street artista anomalo, anche un artista fuori dagli schemi? Risposta: No! Ma credo che siano indispensabili entrambe le cose.













In foto: segnaletica rettificata, manifestini e volantini, adesivi del progetto CUS con su degli interventi, io ed Edwige Comoy Fusaro a Roma Ostiense, foto composizione di Raffaello Paiella io con biglietto bus dell' ATAC del progetto PBA - Progetto Biglietto Arte.

Cesare Biasini Selvaggi


L’artista sbagliato: 

intervista a 360 gradi a Pino Boresta di Cesare Biasini Selvaggi

 


Un artista o un temerario? Pino Boresta si racconta in questa intervista a tutto tondo, dal sogno di sciare alle sconfitte virtuose, per riscattare l'esistenza dalla banalità

 

“Un sovversivo, un artista controcorrente, un artista fuori sistema, un artista irriverente, un artista borderline, un artista scomodo, forse un artista sbagliato?”, scrisse Claudia Colasanti sul Fatto Quotidiano “Boresta il più outsider di tutti”. Non so quale tra tutte queste definizioni sia la più giusta, ma Pino Boresta è sicuramente un uomo che ha voluto fare l’artista per prendersi il lusso di non nascondere le proprie debolezze. «Non so se questo fa di me un artista di valore meritevole di attenzione, o solo un temerario rompi palle, ma questo è», afferma Boresta. E per conoscere meglio l’uomo e l’artista lo abbiamo intervistato a tutto tondo.

Dove sei nato e dove vivi?

«Io sono nato a Roma e posso ritenermi soddisfatto della scelta fatta dal destino. Vivo però in provincia in un paesino a sud della capitale. Una scelta fatta tanto tempo fa per questioni economiche. Per molti anni, abbiamo vissuto in 5 persone in un appartamento di 40 mq su due piani e il bagno era grande come una cabina doccia. Ora è diventato il mio studio».

Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?

«Credo che mi piacerebbe vivere a New York, ma non credo che riuscirò mai neanche a visitarla, tantomeno a viverci, anche se non dispero visto che ultimamente sono riuscito a realizzare l’altro mio sogno, che era quello di ritornare a sciare dopo 35 anni. Infatti, a Capodanno per alcuni giorni con i miei figli, sono riuscito a domare le dolomiti. È stato durissimo, ma bellissimo anche in virtù del magnifico posto che mi ha fatto tornare indietro alla mia gioventù spericolata. Purtroppo, al ritorno nonostante la doppia dose di Pfizer, fatta solo tre mesi fa, è spuntato il COVID, probabilmente Omicron. Se non altro questa condizione di confinato in camera, trattato dai famigliari come lo scarafaggio di Kafka ogni qual volta mi affacciavo o trovavano la porta semiaperta. Mi ha dato la possibilità di dedicarmi alla tua intervista con la giusta concentrazione. Comunque, sto già migliorando».




Quando e come è nato il tuo interesse per l’arte?

«La verità è che una volta congedato dal servizio militare, in realtà non sapevo esattamente cosa volessi fare della mia vita, fu allora che pensai di iscrivermi a un corso di stilista di moda, dove ho incontrato un professore di figurino, che in qualche modo mi ha iniziato al disegno. Poi mi sono sempre più appassionato e il resto è venuto da sé. In seguito, sono emigrato per un periodo a Londra per imparare la lingua, e lì ho continuato a coltivare la mia passione per il disegno e la pittura. Tornato definitivamente a vivere in Italia ho capito che quello dell’arte poteva essere un mondo a me congeniale, che avrebbe potuto darmi la possibilità di esprimere ciò che pensavo e sentivo. Ho voluto così tentare con le mie opere di mettere la mia anima su un piatto d’argento».

Qual è stato l’incontro più significativo per la tua formazione?

«Renato Mambor è stato uno tra i primi grandi artisti romani che ho conosciuto, suggeritomi da Carolyn Christov-Bakargiev dopo avergli mostrato una sorta di portfolio di alcuni miei lavori realizzati con la mia ombra, mi disse: “Ma non conosci Mambor, Lombardo e Tacchi?” Io risposi di no. Poco dopo andai a trovare Sergio Lombardo a Jartrakor nella sua galleria e spazio sperimentale per l’arte, e lì conobbi Mambor, tutti gli Eventualisti, il gruppo dei Piombinesi e Cesare Pietroiusti. Il resto è storia nota a molti: Il Bollettino delle Disordinazioni di Giuliano Lombardo, I giochi del senso e/o non senso, la Street Art, Il Progetto Oreste, l’Arte Relazionale, le mie Performance Clandestine e i miei ArtBlitz. Ma un altro artista con il quale ho avuto fin da subito una certa complicità, soprattutto per la stessa visione critica nei confronti di un certo sistema dell’arte, è Pablo Eucharren. Lui ha sempre trovato il mio lavoro di natura sovversiva particolarmente interessante, e ne ha spesso parlato in diversi suoi articoli e libri: per questo debbo essergliene riconoscente».



C’è stato un accadimento o un incontro così intenso da farti cambiare il modo di guardare le cose?

«Ci sono due incontri che ricordo con particolare emozione e che credo in qualche modo abbiano probabilmente influito sulla mia visione delle cose nell’arte, anche se non spiegherò come, non in questa occasione. Uno è quello che ho avuto con Wolfgang Laib, una splendida persona e un grande artista che ho avuto il piacere di aiutare nella realizzazione di una delle sue stanze rivestite di cera d’api. Era una mostra al Palazzo delle Esposizioni, e ancora oggi ogni qual volta sento quel profumo di cera così particolare mi ricordo di Wolfgang e di quella bella esperienza. L’altro, quello avuto con la magnifica Marina Abramovic che conobbi in occasione della videoripresa che ho fatto su richiesta di Mario Pieroni mentre eseguiva la sua installazione con sangue di maiale: “Spirit Cooking” presso l’Associazione per l’arte Contemporanea di Zerynthia a Paliano, in collaborazione con lo Studio Stefania Miscetti. Il video si trova su YouTube e ha superato due milioni di visualizzazioni. Alla fine del video mi si vede pure mentre con la fronte testo un’altra sezione della sua installazione».

C’è una mostra (non tua) che ricordi con particolare intensità?

«Quella di Luca Vitone a Villa Adriana e negli spazi del MAXXI a cura di Andrea Bruciati e Anne Palopoli. Ho trovato le opere realizzate bellissime e molto vicine alla mia sensibilità e interesse artistico».

Quali sono gli artisti e le opere che più ti hanno influenzato?

«Dada, Situazionisti, Fluxus, Lettristi, Arte comportamentale, Arte concettuale, Narrative art. Penso che in futuro il mondo dell’arte sarà sempre più interessato alla ricostruzione della vita e del percorso dell’artista (cosa che in genere già avviene, non certo nel mercato dell’arte), che l’ha portato a generare opere significative e pregne di senso. Forse è per questo che la parola e il linguaggio sta acquisendo sempre più importanza all’interno delle indagini sperimentali di numerosi artisti contemporanei, e più di uno sono gli artisti padri nobili, di questo tipo di ricerca artistica. Tre dei più importanti sono sicuramente lo straordinario Joseph Kossuth, il grande Lawrence Weiner scomparso da poco e la talentuosa e provocatoria Barbara Krüger. Una parte della mia ricerca si è orientata in questa direzione già alla fine degli anni duemila, ma ho esposto le opere realizzate solo nel 2003. Indagine che è poi proseguita nel tempo, traducendo anche in inglese e altre lingue alcune mie opere “Testamenti”, che qualcuno ha definito dei calembours, ma che a mio avviso sono una sorta di dichiarazioni, di ultimatum ironici e provocatori».

Qual è la tua giornata tipo?

«Se non capisci che quello che impari in ogni attimo della tua giornata è utile per l’attimo seguente, è meglio che tu perda la speranza di poter raggiungere i tuoi obiettivi. E questo puoi farlo solo se utilizzi una visione speculare nei confronti delle esperienze, traslando da un caso a un altro quello che capisci nei differenti contesti che ogni giorno ti trovi ad affrontare. Ho conosciuto tanta gente certa di essere più intelligente di me, ed aveva ragione. Ma, ahimè, ho anche visto un sacco di queste persone non concludere niente di buono nel corso della loro esistenza, come alcuni personaggi appartenenti al mondo dell’arte che, a causa del loro cinismo, stanno divorando tutto quello di buono che avevano fatto e potevano continuare a fare. Per questo motivo la storia potrebbe avere la tentazione a dimenticarli, in quanto se non metti anche amore in quello che fai, sarà difficile che la gente desideri ricordarti».

Hai dei riti particolari quando lavori?

«I frutti di una buona semina si raccolgono sempre in seguito, ma il campo in cui si semina va protetto e difeso. Per fortuna io preparo opere e progetti non solo in funzione di possibili mostre o esposizioni, il che può anche accadere, ma per il piacere di farlo, perché questo è il mio tentativo di esistere. Mi è capitato di vivere così profondamente rannicchiato all’interno dei miei pensieri che a volte è successo che dipingessi per 14, 16 ore di seguito senza accorgermi del tempo che era scorso. Si dice che i folli non hanno la percezione del tempo o proprio per la profonda consapevolezza che hanno di questo diventino degli alienati. Io non so quale delle due sia la più vera, ma ho motivo di credere che la seconda sia quella che agisce su molti artisti, e forse per questo in alcuni casi vengono considerati quasi dei pazzi».



C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?

«L’imprevisto, la coincidenza e la casualità sono elementi verso i quali pongo una particolare attenzione. Questo tipo di attitudine mi dà la possibilità di scoprire schemi che altri non possono vedere, in quanto avvengono nella mia mente particolarmente incline agli effetti apofenici. E credo che questo sia il seme giusto per avere una prospettiva migliore nella realizzazione di opere interessanti».

Hai mai paura di fare quello che fai?

«No! In genere non ho mai avuto paura; né nei i miei raid artistici in importanti contesti ufficiali, dove ho urlato la mia verità, né nel corso d’interventi urbani o di street art particolarmente azzardati. E mi fa piacere sapere che, a detta di alcuni, in questa caotica giungla di adesivi, che sono diventate le nostre città, le mie facce vengano considerate a 30 anni di distanza dalla loro apparizione, gli stickers più estranianti. Ed in alcuni casi, aggiungo io, gli unici interattivi dove si può scriverci su una propria opinione. La differenza che c’è tra me e coloro che con i loro adesivi trasformano i cartelli stradali in divertenti vignette è praticamente la stessa che c’è tra un attore drammatico è un attore comico. Senza nulla contro la nobile arte del comico. Del resto, ognuno ha le sue preferenze come è giusto che sia, ma mi trovo d’accordo con Arthur Schopenhauer quando dice: “Ogni verità passa attraverso tre fasi: all’inizio è ridicolizzata, poi è violentemente contrastata, infine la si accetta come evidente”».




Hai mai avuto dei momenti di crisi durante il tuo percorso artistico? Come li hai superati?

«Credo di dover ringraziare le numerose sconfitte subite per l’artista che sono diventato. Le delusioni hanno forgiato il me che sono, regalandomi la possibilità di realizzare opere e progetti che forse non avrei mai pensato. Perché si sa che sono le necessità che ti fanno diventare virtuoso, ma trovare le idee per i miei lavori non è mai stato un problema, ne ho sempre avuto a profusione. Il problema piuttosto è quello di mettere in fila le riflessioni e i pensieri su questi per poi trovare il giusto modo e momento per utilizzarli. Il mio lavoro non è di difficile comprensione perché le mie opere sono dirette e prive di orpelli. Per questo motivo non mi trovo mai a dover far discorsi particolarmente intelligenti o farraginosi per giustificarli. Le mie opere sono quello che sono e fanno semplicemente parte del mio stile di vita. Questo spiega perché difficilmente mi preoccupo che piacciano o meno. Del resto, la vita ha senso se riesci a trasformare la morte in vita; è questo è quello che tento di fare con il mio lavoro».

Come descriveresti la tua ricerca?

«Forse un coacervo di ossessioni. Mi sono reso conto che sono schiavo dell’accumulo compulsivo, tutto quello che mi circonda finisco spesso per inglobarlo nelle mie opere, credo che mi renda più sopportabile lo scorrere del tempo. Ho poi letto da qualche parte che quello che ha fatto la differenza tra Homo Sapiens e altri ominidi che poi sono scomparsi è stato la capacità di astrazione e quella dell’accumulo che posseggono i Sapiens. E io non voglio certo che gli artisti scompaiano, anche se forse vi è qualcuno che preferirebbe che alcuni di questi spariscano dalla scena».



Qual è il filo della tua ricerca e le sue pratiche?

«Spesso l’opera di un artista può sembrare narcisa, ma in realtà non è niente altro che la presa di coscienza di sé stesso e della propria inquietudine. Consapevolezza che non deve assolutamente ignorare, in quanto necessaria per potersi immergere, leggere e decifrare i nuovi valori universali che di volta in volta si presentano e si manifestano nella modernità. Sarà solo così che riuscirà a trovare il bandolo della matassa e a trasformare tutto il materiale confuso che la società mette a sua disposizione, in qualcosa che abbia una forma espressiva che, se pur non chiara, definita e definitiva, almeno leggibile, e quindi analizzabile e studiabile».

A che punto decidi che un tuo lavoro è finito?

«Io credo che uno dei principali obiettivi dell’arte sia quello di offrire allo spettatore, più che delle immagini, dei pensieri su cui riflettere. Del resto, un quadro, un libro, un film, una canzone, etc., acquisiscono senso solo nel momento in cui qualcuno ne fruisce. Gli artisti offrono questa opportunità di allungare lo sguardo su quello che hanno scovato e costruito, affinché chi voglia possa in qualche modo avere la possibilità di partecipare a una loro avventura o a quella di qualcun altro, non ha importanza. L’importante e che riescano a confezionare qualcosa di speciale, di qualità. Ecco, è a questo punto, nel momento in cui un artista crede di essere riuscito in questo, che a mio parere deve fermarsi, ed è a questo punto che lo spettatore mette in atto la propria scelta e decide se intraprendere, oppure no, quel viaggio che lo porterebbe vicino all’anima e al pensiero dell’artista».



Mi parli della fisicità concreta nel tuo lavoro?

«“Io credo che la possibilità di creare facilmente opere in serie insolite, che ci permettono i nuovi dispositivi e congegni tecnologici, vadano concepite per la loro potenzialità. E non bisogna snaturarne il loro processo di valorizzazione cercando di applicare su di esse canoni ormai sorpassati come quello dell’unicità e della irriproducibilità dell’opera. Pertanto, coloro che sapranno mettere queste opportunità al servizio di un’immagine audace saranno i validi creatori non di domani ma di oggi.” Ho scritto questo qualche anno fa, e il successo che ora le opere NTF stanno avendo, è la dimostrazione del fatto che qualcosa avevo già compreso. Se poi mi chiedi se questa nuova forma d’arte mi piaccia, devo dirti sinceramente che preferisco le opere che nascono dall’impulso inconscio dell’artista, che con un’intuizione rende consapevole a sé e agli altri, più che la complessità del mondo, la complessità dei pensieri degli esseri umani, i quali nel procedere da un punto a un altro disegnano quello che diventa il segmento di un’esistenza. Così come, per esempio, faceva il mio amico Francesco Melone, un artista che giocando con l’idealizzazione della famiglia borghese era riuscito a smascherare le ipocrisie di una società delle apparenze. Francesco, morto improvvisamente alla fine del 2021, avrebbe meritato un’attenzione maggiore dalla critica dell’arte».

Quali sono le ricerche che più ti rappresentano e meglio trattano le tue aspettative?

«Credo che si possa riconoscere l’importanza e la validità di azioni artistiche, quanto più queste siano sincere e aderenti alla ricerca dell’artista, giacché in questo modo manifestano valenze filosofiche che possono far riflettere più generalmente sulla vita di ognuno di noi. L’assegnazione del premio Nobel 2021 per la fisica a Giorgio Parisi è la prova che viviamo sempre più in una condizione dove il caos diventa il presupposto all’interno del quale dobbiamo imparare a vivere o a sopravvivere. Per questo assume importanza dare la giusta attenzione alle nuove forme d’arte. Nuove, ma neanche tanto nuove, come la performance, la street art, l’arte comportamentale e tutte quelle forme d’arte che mettono in atto un’esperienza diretta con l’opera d’arte. In quanto è tra queste che potremmo trovare la direzione che ci indirizzi più consapevolmente alla comprensione di quello che sta avvenendo intorno a noi. Spesso capita che le azioni artistiche più interessanti siano quelle clandestine, quelle non autorizzate. Ma si sa che, come in tutti i casi in cui non ci siano grossi interessi economici, o addirittura gli interessi siano contrapposti, diventa difficile che qualcuno abbia la lungimiranza di scegliere di parlare della validità e dell’importanza di azioni non sponsorizzate. Specialmente da coloro che considerano i singoli individui insignificanti ma necessari consumatori. Per cui, sono quelle interne all’arte relazionale le nuove forme d’arte necessarie per riesaminare, aggiornare e risolvere i problemi dell’arte. Solo rinnovando i linguaggi artistici divenuti desueti e insufficienti per la rappresentazione delle nuove istanze della contemporaneità e del contemporaneo, riusciremo a mettere sotto una luce più appropriata le nuove complessità dell’esistenza, evitando di cadere in manierismi inutili e fini a sé stessi, cosa che purtroppo nel mondo dell’arte avviene ancora spesso».


In quale direzione sta andando la tua ricerca artistica?

«Fin da quando ho cominciato a fare arte relazionale, il mio tentativo è sempre stato quello di svincolare il giudizio del pubblico dell’arte contemporanea da quello dei critici. Volevo e vorrei che ognuno possa costruirsi un proprio giudizio sul mio operato che non sia condizionato dall’interpretazione del critico di turno che potrebbe non essere scevro da condizionamenti pregiudiziali nei miei confronti. E che potrebbero solo inibire una sincera analisi del mio operato, non offrendo un buon servizio al mondo e al pubblico dell’arte».

Mi racconti un tuo progetto o una tua opera nella quale individui un incontro positivo tra il tuo racconto e la sua materializzazione?

«Sono sicuramente “Firma Boresta” e “SOS Boresta”. Due progetti di Arte Relazionale al quale sono particolarmente affezionato in quanto fanno parte di due momenti di singolare fragilità della mia vita.

Il primo è una campagna di raccolta firme in mio favore per partecipare alla 53° Biennale di Venezia che quell’anno era diretta da Daniel Birnbaum, e al quale inviai le 1.000 adesioni raccolte in diversi eventi artistici in tutt’Italia in due anni. Daniel non mi invitò, ma il progetto è ricordato da molti come un’operazione artistica riuscita che ha lasciato un segno, oltre ad aver rilanciato una discussione sempre aperta come quella sulle scelte che vengono fatte in questi grandi e importanti eventi quale la Biennale di Venezia.

Il secondo è una campagna di crowdfunding da me organizzato per la raccolta di 10.000 euro che servivano a salvare dallo sfratto me e la mia famiglia. A chi aderì con una donazione, a seconda dell’importo, inviai una busta dei miei famosi adesivi o delle mie opere. Inoltre, qualora fosse stato raggiunto il target, una mia opera di pari valore sarebbe stata donata al museo di Spoleto di Palazzo Collicola Arti Visive allora diretto da Gianluca Marziani. L’obbiettivo non fu raggiunto, ma le donazioni insieme al grande aiuto di una nostra cara amica di famiglia fece in modo che potemmo superare questo bruttissimo momento. Anche questo progetto è rimasto nella memoria collettiva del pubblico dell’arte. Due progetti che comunque sono stati per me formativi e mi hanno dato l’opportunità di capire molte cose sugli addetti ai lavori, sugli spettatori, gli amici e sui nemici di questo mondo. Credo, inoltre di aver contribuito alla valorizzazione dell’Arte Relazionale dimostrando che un’esperienza può divenire un’opera d’arte che lascia molte tracce e documenti di valore».

Quali sono gli strumenti preferenziali per lo sviluppo del tuo lavoro?

«A volte ho il sospetto che l’importanza della mia esistenza non risieda tanto nelle mie opere, quanto piuttosto nello stile di vita e nel tipo di introspezione che pongo nei confronti dell’esistenza. Una filosofia di vita che mi spinge ad appuntarmi costantemente ovunque i pensieri e le riflessioni che si manifestano nella mente. In genere, sono foglietti dove riporto circostanze, avvenimenti, asserzioni, ponderazioni, valutazioni, lamentele, congetture, etc.  Di tanto in tanto cerco di mettere ordine a questo mare di fogli e foglietti per poi trascrivermeli su delle agende, ma è una follia, sono dappertutto: sul tavolo, sopra il PC, in camera da letto, nella libreria, in salotto, nei cassetti, in vari raccoglitori, dentro dei quaderni, nei libri, in delle riviste, in delle cartelline, dentro delle buste, in varie attaches, mollette e porta carte. Il fatto divertente è che a volte quando li vado a rileggere non capisco cosa ho scritto, e la mia figlia più piccola (Anisia che ora ha 18 anni da poco compiuti) è un portento, e ha sviluppato la capacità, tra le diverse che ha, di riuscire a capire anche le parole e le frasi che io stesso, a volte rileggendo, non riesco a decifrare. Non so come faccia. Ho inoltre una serie di manie che consistono nel contare, misurare, conservare e ammassare praticamente di tutto: dalle etichette dei capi d’abbigliamento agli scontrini della spesa, dalle unghie tagliate ai tappi di dentifricio. Una volta che inizio ad accumulare qualcosa, spesso senza ricordare neanche il perché, non riesco più a smettere. Ultimamente mi sono ricordato che incominciai a serbare i tappi del dentifricio perché mio figlio, dopo aver visto un castello costruito con i tappi di dentifricio nel film “La fabbrica di cioccolato” mi chiese di farne uno. Ora Mairo si è laureato ed io continuo a non buttare i tappi. Una volta ho sentito dire da un accumulatore compulsivo che lui faceva quello che faceva perché era una scommessa con sé stesso, forse anche io potrei dire la stessa cosa, ma non saprei dire che tipo di scommessa. La verità è che poi nel tempo spesso utilizzo tutto quello che ho conservato per fare delle opere. Per questo non riesco a disfarmi quasi di nulla. Nel 1998, per parlare del mio progetto R.A.U. Reperti Arteologici Urbani, ho realizzato una foto plotter con la mia primogenita Soele che allora aveva circa 2 anni, dove dico: “Come faccio a dire a mia figlia che non deve toccare la robaccia per terra in strada? Come faccio a dire che può farlo solo il papà, perché fa l’artista.”. Ecco, grazie a questa attitudine, riesco a realizzare opere d’arte che hanno una storia e dicono la loro. E forse il valore delle opere di un artista andrebbero lette anche alla luce di questo tipo di confessioni. Le Corbusier ha detto che soltanto un’ossessione può riscattare l’esistenza da una banalità. Questo potrebbe essere un altro motivo del mio agire».




Qual è la tua mostra a cui sei più affezionato?

«La mia personale del 2003 al MLAC-Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università La Sapienza di Roma che, all’epoca, era diretto da Simonetta Lux. La mostra, a cura di Domenico Scudero e Silvia Biagi, si intitolava “Artisti & Co.”. Insieme ai lavori intitolati “Testamenti”, che presentavo per la prima volta, esposi anche 30 ritratti a olio di artisti, critici e galleristi tratti dalle figurine del mio progetto dell’Album di Oreste Uno del 1998. Una sorta di libro d’artista dove sono riportati tutti i personaggi che parteciparono alle prime due edizioni del Progetto Oreste che si tenne a Paliano, un paesino vicino a dove vivo io. Il progetto nel 1999 fu invitato alla 48° Biennale di Venezia da Harald Szeemann».

Con quale artista del presente o del passato vorresti fare un duetto artistico? Un progetto a quattro mani?

«Un artista del presente con il quale mi piacerebbe avere una collaborazione è Gian Maria Tosatti che in post così mi scrisse: “Caro Pino, io non credo che tu sia odiato. Credo anzi, che sia molta la stima che il mondo dell’arte ti porta per il lavoro da precursore che hai compiuto. Io credo che la cosa ti venga anche riconosciuta nei limiti del fatto che tu per primo hai declinato la tua personalità artistica in modo borderline e fuori sistema. Ma questo era funzionale alla tua pratica e alla tua pratica espressiva. Per cui forse non hai avuto una consacrazione a livello di sistema (avendo tu lavorato radicalmente fuori da esso), ma penso che l’arte non sia il sistema. Il sistema è solo la sua regione economicamente ricca. La storia dell’arte è altro. E credo che il tuo posto ti venga riconosciuto da molti nelle pagine di storia dell’arte di questi decenni.”

Mentre gli artisti del passato con quale sarebbe stato fantastico collaborare sono due; l’ineguagliabile e immenso Joseph Beuys, il cui lavoro viene magnificamente valorizzato dalla brava Lucrezia De Domizio Durini e dalla sua Fondazione, e il geniale e insuperabile Alighiero Boetti, il cui lavoro è magistralmente gestito dai figli Matteo e Agata».

Tra i tuoi progetti e le mostre realizzate, cosa ti ha dato più soddisfazione e, al contrario, più delusione?

«È stata motivo di soddisfazione, ma anche di delusione “Il Boresta che non ti aspetti”. Un progetto che avevo in mente da diverso tempo ma che a causa della pandemia siamo riusciti a realizzare solo in parte ad inizio 2021. Doveva essere un ciclo di mostre con il quale valorizzare alcuni momenti importanti del mio lavoro artistico. Invitavo a esporre con me anche artisti di cui stimo il lavoro, come Flavio Favelli, Salvatore Falci, Cesare Viel. Nella galleria Micro di Paola Valori con la cura di Raffaele Gavarro siamo comunque riusciti, durante la prima mostra dei “Tovaglioli” (quadri da me realizzati in gioventù a Londra allorché facevo il cameriere) a organizzare un’azione di arte relazionale intitolata “Serve! Boresta”. Una performance piuttosto riuscita e apprezzata alla quale hai partecipato anche tu oltre a Daniela Lancioni, Adriana Polveroni, Cecilia Casorati, Ludovico Pratesi, Beatrice Bertini, Claudio Libero Pisano, Carlo Alberto Bucci, Francesco Impellizzeri, Liliana Maniero, Ivan Barlafante, Antonio Arévalo, Valentina Ciarallo. E per questo ringrazio te come tutti loro. L’azione artistica consisteva in una serie di pranzi al buio. Al buio nel senso che i quattro commensali non sapevano con chi altri del mondo dell’arte avrebbero desinato, ma sapevano che circondati dalle mie opere sarebbero stati serviti dal sottoscritto. E loro stessi partecipavano e facevano parte dell’happening che in qualche modo obliteravano firmando il tovagliolo usato durante il convivio al termine di questo, divenendo così opere testimoniali».




Quanto è importante per un artista contemporaneo il rapporto con l’arte del passato?

«Molti sono gli artisti del passato che per me sono stati e sono un punto di riferimento. Noi che veniamo dopo di loro, in qualche modo, siamo quasi obbligati a continuare il lavoro che ci hanno indicato. Non potremmo fare diversamente. Logicamente siamo condizionati e influenzati da tutto ciò che di nuovo oggi ci circonda, e che loro non avevano e non potevano vedere, ma che in qualche caso avevano previsto, perché se esiste una facoltà della quale sono dotati tutti i grandi artisti, questa è sicuramente l’accentuata visionarietà. Per cui trovo giusto che molti artisti odierni trovino il coraggio di prendere il testimone da questi grandi del passato e mostrino la loro visione sulle cose e sui fatti nel tentativo di capire dove stiamo andando. Io, in qualche modo, credo di averlo fatto con Arnulf Rainer. Il problema è che qualcuno imbocca la strada giusta e dà vita a opere di valore, altri prendono strade sbagliate e danno vita solo a oggetti commerciali. Del resto, come disse Giorgio Gaber “Gli artisti si dividono in quelli che vogliono passare alla storia e quelli che si accontentano di passare alla cassa”».

Qual è la critica più forte che senti di fare al sistema della cultura e dell’arte di oggi?

«Purtroppo, ogni volta che il cambiamento sembra si stia imponendo avviene invece che gli artisti che vengono scelti siano sempre gli stessi, e tutto si appiattisce verso le esigenze dell’Art System. Accade così che anche il nuovo finisce per fare l’occhiolino proprio a quel sistema che prima criticava. Trovo che questo sia molto preoccupante perché ciò significherebbe che non esistono più persone veramente sincere. Qualcuno sostiene che tutto è politica, e la politica dell’arte non si differenzia da quella dei politicanti veri e propri. Io, però, voglio continuare a credere che non sia così. È giusto che ognuno sostenga gli artisti amici che stima di più. Tuttavia, sarebbe altrettanto bello che una volta tanto qualcuno riuscisse anche a dare seguito a quello che sosteneva nei confronti di un sistema dell’arte che ha sempre duramente criticato. Potremmo così sperare che anche questa volta non si ricada nella solita storia del paese del Gattopardo. Del resto, un artista, tanto più se di valore, ha il diritto di ambire a qualche gratifica. Nessun artista è insensibile al riconoscimento del proprio lavoro. Per questo bisogna cercare che il sistema cambi il modo in cui tratta certi artisti. Staremo a vedere cosa succede anche questa volta, ma le premesse non mi sembrano le migliori».

Che cosa pensi del rapporto tra l’arte contemporanea e la politica?

«Si dice: “La politica è un lavoro sporco, ma qualcuno deve pur farlo”. Ecco! credo che la stessa cosa valga per gli artisti che hanno il coraggio di criticarla. Credo che un artista abbia il diritto di dire la sua su tutto ciò che lo circonda. A volte può essere un lavoro scomodo e, in alcuni casi, anche pericoloso, rischiando l’emarginazione da un certo tipo di mondo dell’arte che conta. A volte ho l’impressione che sia ciò che accaduto a me con il mio lavoro M.E.R.d.A.-Manifesti Elettorali Rettificati da Asporto. Una mostra che sono riuscito a realizzare solo dopo molto tempo grazie alla gallerista Rossella Alessandrucci e al Macro Asilo di Giorgio de Finis: due contesti probabilmente non molto graditi al sistema dell’arte ufficiale, e devo ringraziare il loro coraggio. Ma io per questo non odio nessuno perché, come dice Ellis nel film “Non è un paese per vecchi”, “Tutto il tempo che passi a cercare di riprendere quello che ti hanno portato via è solo tempo sprecato. Devi fare in modo che la ferita non sanguini più. Cercare di riprenderti ciò che ti hanno portato via è solo tempo perso e dopo un po’ è meglio metterci una pietra sopra”».

L’arte contemporanea ha ancora un valore etico e morale nella società contemporanea?

«Qualcuno sostiene che si potrebbe anche smettere di produrre opere d’arte, ma questo è assurdo. Sarebbe come dire che si può smettere di scrivere libri. Ammesso, e non concesso, che fossi d’accordo, io proprio non ci riuscirei. Continuo a produrre opere nonostante oggi come oggi per fare l’artista, non ve ne sia bisogno. A volte vorrei smettere, eppure non ci riesco, è più forte di me. Credo che sia una questione d’imprinting, come quello delle formiche e delle api: loro non possono fare a meno di fare il lavoro per il quale sono nate. E io sento che non posso fare a meno di fare quello che faccio. È una sorta d’istinto primigenio che mi spinge in quella direzione e non so da dove provenga, probabilmente è qualcosa che fa parte di molti di noi dal momento della nascita. Ho letto dello studio di alcuni scienziati che sostengono che quanto più la nostra vita è generativa tanto più siamo felici. Questo potrebbe essere il motivo che spinge tanti artisti a produrre opere con la speranza, magari, di poter sciogliere qualche dubbio esistenziale».



Pensi che l’artista sia ancora in grado di incidere sulla realtà?

«Penso di sì, ma bisogna possedere una certa vocazione nei confronti di quello che ci circonda, reale o irreale che sia. Ritengo che se si possiede una giusta predisposizione alla serendipity si ha l’opportunità di scoprire cose inaspettate, o di trovare la soluzione a qualcosa alla quale stavi già lavorando. È così che si manifesta il quid del genio».

Qual è il tuo atteggiamento verso la spiritualità e la religione?

«Le civiltà si evolvono e ogni nuova civiltà pretende la sua nuova forma d’arte, è questo quello che succede in virtù delle istanze esistenziali che cambiano, e le società cambiano queste istanze continuamente. Per questo credo che l’arte contemporanea, da un certo punto di vista, sia stata un deterrente che ha frenato il nascere continuo di nuove religioni di cui il genere umano, a mio parere, non sempre ha bisogno o avrebbe avuto bisogno. Sarebbe stato in molti casi meglio e più utile riporre fiducia nella scienza. Quindi è proprio qui con la rinuncia alle religioni che forse l’uomo può trovare la possibilità di evolvere più velocemente, anche se la storia ci insegna che a volte non è stato così. E poi c’è anche il problema del proliferare dei falsi Messia e Profeti anche nel mondo dell’arte».

Individuo e società: cosa ti affascina di questi due mondi? In che rapporto sono tra di loro e con il tuo lavoro?

«In una società dell’immagine imperante e prepotente come quella che stiamo vivendo, credo che l’unica possibilità di salvezza che ha un artista come individuo sia oggi quella di rivolgere attenzione alle nuove forme d’arte che gli vengono suggerite dall’intuito. Ritengo che così si avrà modo di estrarre zone autentiche e di universale interesse a beneficio di una società futura composta da una collettività sempre più complessa e avanzata. È così che nasce la mia serie concernente opere con residui corporei: sono tracce biologiche del mio corpo (in seguito non solo mie) che inizialmente usavo in combinazione con tecniche tradizionali per la realizzazione di quadri, poi utilizzate anche come forma d’autentica per le mie opere. Finendo quindi per divenire un progetto a sé stante che ha avuto e continua ad avere interessanti sviluppi tutt’oggi in corso».

Cos’è per te oggi veramente contemporaneo?

«Le origini e i miti primari sono si parte di noi, che credo non debbano farci temere il confronto con l’uomo moderno sempre più proiettato verso la superfice cosmica».

L’attuale esperienza dell’emergenza sanitaria del covid-19 quale riflessione ti ha fatto maturare sul tuo lavoro artistico, sul tuo ruolo d’artista, sul senso dell’arte e della vita più in generale?

«Una volta l’arte veniva percepita più che altro come una forma di pura emozione. Probabilmente pure oggi è ancora così, ma questo non è più sufficiente per soddisfare le esigenze emotive e la sete di conoscenza dell’uomo contemporaneo. Anzi, oserei dire dell’uomo spaziale che inaspettatamente si trova a confrontarsi con incognite troppo a lungo sottovalutate, come quella dei virus. E noi, che forse siamo un virus venuto dallo spazio che ha colonizzato questa terra, dovremmo incominciare a prenderci realmente cura del nostro pianeta: non vedo la possibilità di un piano B».



Come vedi il futuro?

«Non credo che il futuro dell’arte possa essere incarnato o continuare a essere incarnato da opere provocatorie come banane attaccate al muro o chissà che altro. Se si considerano, però, l’orinatoio di Duchamp e le scatolette di merda di Manzoni opere provocatorie, allora sì! Ma qui abbandono la palla e la lascio a chi vorrà scriverci il milionesimo libro su Marcel.

Mi chiedo, tuttavia, cosa succederebbe se il pubblico dell’arte che conta smetteste di entusiasmarsi per la spettacolarità che alcune opere rivestono? Cosa accadrebbe a tutti quegli artisti che grazie a queste e su queste hanno edificato il loro successo? Probabilmente non avverrà mai, sono troppi gli interessi che vi ruotano intorno, e il mondo dell’arte si è sempre nutrito di sensazionalismi, per cui se un limite invalicabile non esiste, quello che ci rimane è sperare che almeno si cominci a fare una distinzione tra arte da avanspettacolo e un’arte che poggi le sue basi su altri valori e significati. Questo potrebbe in qualche modo arginare il proliferare di boutade artistiche, e l’arte vera non potrebbe che giovarne».

Pubbblicato su Exibart.com cliccare qui 



In foto: io pronto per la performance "Boresta a Servizio" del ciclo di mostre "Il boresta che non ti aspetti", un segnale stradale rettificato, io durante la performance "Boresta a Servizio" presenti: Ludovico Pratesi, Cecilia Casorati, Cesare Biasini Selvaggi, Tiziana Novena, io con alle spalle alcune opere della serie dei miei Tovaglioli, due miei MERdA - Manifesto Elettorale Rettificato da Asporto, progetto Residui Corporei capelli in barattoli, una delle mie opere della serie Testamenti, una foto con scritta di me con mia figlia Soele, una delle mie opere della serie RAU Domestico, io davanti all'installazione della mostra "Il corpo di boresta" sempre del ciclo di mostre "Il boresta che non ti aspetti"progetto Residui Corporei unghie in barattoli.


Caterina Orioli

 


Intervista di Caterina Orioli a Pino Boresta

 

In che modo il Progetto Oreste si può inserire nel concetto di Arte Relazionale

Credo che Oreste si possa considerare uno dei principali progetti di Arte Relazionale nel nostro paese, e probabilmente eravamo tra i primi artisti in Italia a parlare convintamente di esperienza relazionale come soggetto artistico. Durante la prima lunga residenza ognuno di noi portò il racconto della consapevolezza ma anche dell’inconsapevolezza del proprio lavoro, frutto dell’attività che stavamo svolgendo e sperimentando con le nostre opere relazionali. Durante la seconda e le altre due residenze che si tennero in Basilicata (le prime due si erano tenute in un paesino del Lazio proprio vicino a dove vivo io tutt’ora) non ci furono solo incontri dove confrontarsi, ma la situazione divenne sempre più articolata, organizzando una serie di attività non solo in loco ma pianificando diverse che continuarono in giro per lo stivale e all’estero. Non posso certo mettermi qui a raccontare tutto e purtroppo non troverai ogni cosa neanche nei tre libri ufficialmente realizzati dal gruppo operativo di Oreste, né tanto meno nelle varie citazioni nelle diverse pubblicazioni qui e lì, e forse sarebbe tempo di cominciare a pensare ad una esaustiva e dettagliata. Oreste fu comunque in un certo qual modo percepito fin dall’inizio, come un progetto rivoluzionario che aprì una nuova visione dell’arte non solo in Italia. Questo avvenne specialmente grazie alla visibilità internazionale che ottenemmo in virtù dell’invito alla Biennale di Venezia del 1999 di Harald Szeeman. Nel corso di questa 48° Biennale lo spazio del Progetto Oreste era collocato in una saletta dell’ex Padiglione Italia che proprio quell’anno venne da Harald abolito, utilizzando il vasto padiglione centrale per la mostra internazionale. Avevamo a nostra disposizione anche un terrazzino che dava su uno dei canali interni dei giardini della biennale che fu comodissimo per l’allestimento del nostro spazio, ma che risulto utilissimo e sfruttammo abbondantemente per pranzi e situazioni non solo conviviali. Durante tutto il periodo della biennale ci fu un coinvolgimento attivo di una quantità enorme di realtà artistiche e culturali nazionali ed internazionali con una partecipazione veramente rilevante di personalità non solo del mondo dell’arte, e con una platea di pubblico veramente considerevole. Mi ricordo che in seguito ho avuto modo di rilevare che, pur non avendo capito esattamente di cosa realmente si trattasse e in che veste fossimo lì, tutti i visitatori si ricordavano della presenza di Oreste, a differenza dei vari artisti partecipanti in quell’edizione che quasi tutti avevano invece ben presto dimenticato. Questo riscontro ha destato in me una serie di riflessioni, perché uno dei nostri intenti, ampiamente dichiarato era quello di rimettere al centro dell’attenzione gli artisti e il loro lavoro nei confronti di un pubblico dell’arte spesso disattento e superficiale, attratto più dalla mondanità delle kermesse dei vernissage artistici che dall’opera dell’artista. E bene in quell’occasione era accaduto che un soggetto artistico collettivo che aggregava una serie di persone che non erano solo artisti, non esponendo nessun tipo di opera se non se stessi e le proprie idee, aveva destato una curiosità ed un interesse maggiore a molti altri se non a tutti gli altri. Questo era dovuto alla fame di partecipazione crescente che vi era da parte di un pubblico dell’arte che voleva sempre più essere coinvolto nella realizzazione di opere e progetti artistici. Questo, noi Orestiani lo avevamo capito già da tempo, prima di molti altri, e per questo con il nostro operato avemmo successo rimanendo nella memoria di chi aveva avuto modo di conoscerci e incontrarci. Ma solo pochi di noi sono stati nel tempo poi premiati, in quanto non tutti risultarono funzionali al sistema dell’arte che dette spazio ed attenzione giusto ad alcuni.

 


Che ruolo aveva (se di ruoli si può parlare) all’interno del Gruppo?

Come ho già raccontato in un'altra occasione, all’epoca mi ero comprato da poco una telecamera e per questo fu affidato a me il compito della documentazione video e fotografica non solo degli incontri e delle presentazioni dei residenti e degli ospiti, ma più in generale della residenza in tutti i suoi vari e variegati aspetti. Questo perché, abitando vicino alla residenza ero tutti i giorni presente, per cui oltre a svolgere altre mansioni logistiche mi potevo occupare tranquillamente anche della documentazione e di ogni aspetto di quella che era diventata una comunità artistica a tutti gli effetti.

Ma questo avvenne solo per le prime due edizioni perché come ti ho detto poi la residenza si spostò nel sud Italia. Ecco cosa ho già scritto al riguardo:

A fronte di qualche sacrificio mi ero comprato da poco una telecamera Panasonic RX1 (all’epoca mi ricordo che spesi 1.150.000 Lire). Un acquisto che avevo voluto affrontare a tutti i costi visto che era nata la mia prima figlia (Soele) già da un anno e ancora non ero riuscito a immortalare i suoi primi anni di vita con dei filmini, così come facevano tutti, e io non potevo certo continuare a perdere i migliori anni di mia figlia. Quando Salvatore scoprì che possedevo una telecamera, d’accordo con Cesare decisero di assegnarmi il compito della documentazione video fotografica. Infatti, io vivevo, e vivo tutt’ora, molto vicino a dove si sono svolte le prime due residenze di Oreste, e per questo ero tutti i giorni presente. Insomma, presi così seriamente questo incarico che cominciai subito a schedare fotograficamente tutti i partecipanti alla residenza, e anche tutti gli ospiti che di volta in volta ci venivano a trovare durante i vari incontri, discussioni, eventi, etc. Inoltre, fin dalla prima presentazione d’artista, incominciai anche a fare dei video di documentazione, che ho avuto modo di rivedere ultimamente proprio durante i giorni cafausici della post-mortem di Oreste, e devo dire che erano (e sono) un po’ troppo artistici, ma io ero artista, e per la prima volta avevo tra le mie mani una vera telecamera tutta per me; per cui non ho saputo resistere alla tentazione di infilarci riprese sperimentali probabilmente discutibili. All’epoca, nella mia inesperienza, pensavo che più che altro l’importante fosse la registrazione audio dei vari interventi, che però avveniva sempre per mezzo del microfono della telecamera, e per questo motivo spesso anche le inquadrature erano e sono piuttosto improbabili: inquadravo piedi, zummavo bocche, facevo primi piani di orecchie, oppure: capovolgevo o trascinavo la telecamera, improvvisavo filtri che anteponevo davanti alla lente di ripresa, etc. Nonostante ciò, ci sono comunque parecchie buone riprese, e poi le ore di girato furono così tante che alla fine Mario Gorni è riuscito comunque a montare un bel filmato su Oreste che è stato presentato in diverse occasioni.

 


Presi così seriamente il mio ruolo di documentazione che mi entusiasmò al punto tale che mi venne in mente di realizzare con questo materiale un lavoro che sarebbe poi risultato utilissimo ai fini della memoria storica, in particolare delle prime due edizioni. Ecco cosa ho detto e già raccontato in un'altra occasione:

Oreste mi ha dato l’opportunità di realizzare uno dei lavori più divertenti che abbia mai realizzato: l’album delle figurine di Oreste, che in realtà sono due perché uno è Album Oreste Zero e poi c’è il secondo Album Oreste Uno. Ricordo ancora come fosse ieri l’euforia dipingersi sui volti di coloro che trovavano la loro figurina all’interno delle bustine appena aperte. Credo che regalare felicità sia una delle gioie più belle della vita, e quella volta a me era riuscito inaspettatamente bene, per questo ne rimasi per molto tempo orgoglioso e lo sono tutt’ora. Quando durante la residenza di Oreste la mattina arrivavo con i pacchetti di figurine, freschi, freschi appena fatti, preparati durante la notte per stare al passo con le richieste, venivo praticamente preso d’assalto dai residenti e finivo tutta la produzione nell’arco di pochissimo tempo. Dovevo così tornare a casa a farne delle altre, ma essendo la manifattura delle bustine contenente le figurine uno degli aspetti più rognosi della realizzazione del progetto, per fare più in fretta escogitai l’espediente che a coloro che mi riportavano dieci bustine aperte, che riutilizzavo restaurandole, regalavo in cambio due bustine piene. Era quindi diventato divertente guardare con quale circospezione spesso le persone aprivano le bustine appena comprate. Questo escamotage mi dette la possibilità di una produzione un po’ più celere, senza riuscire comunque a soddisfare le richieste giornaliere. Un altro aneddoto divertente che posso raccontare è quello legato alla foto che si trova proprio sul pieghevole del programma del MAMbo 2019, dove si vede la prima foto di gruppo in assoluto di Oreste, e che si trovava nell’Album Oreste Zero. Ma quelle che vediamo rabberciate nella foto del programma sono le due figurine che Salvatore Falci ha acquistato per ben cinquanta figurine da Zeno Lumini, che era stato l’unico fortunato a trovare entrambe le parti riuscendo a comporre l’ambita foto di gruppo. Un’offerta così vantaggiosa che Zeno, messo sotto pressione da Salvatore, non poté rifiutare tant’è che, pur avendole già attaccate sul suo album, decise di staccarle per darle a Falci in cambio della cospicua offerta. Per cui queste che si vedono sono le due parti rabberciate sull’album di Salvatore Falci che poi è diventata a sua volta una figurina del mio diario con immagini e brevi testi (una sorta di diario con figure) dell’Album Oreste Uno. In seguito, qualcuno ha anche azzardato sostenere che questo diario per immagini del secondo album di Oreste è stato una sorta ante-litteram di Facebook.

All’interno dell’“Album di Oreste Uno” realizzai anche una vera e propria accurata indagine statistica (frutto di un rigoroso database messo giù con un mio amico che studiava scienze statistiche) con tanto di grafici riguardante le prime due residenze che fu anch’essa particolarmente apprezzata, ecco cosa racconto riguardo la bozza di uno di questi grafici che ha avuto un inaspettato successo essendo stato poi pubblicato in diverse occasioni:

Tabella Oreste – Se avessi saputo che questo piccolo schema fosse diventato così importante, avrei posto graficamente più attenzione nel farlo, ma probabilmente non avrebbe avuto la stessa freschezza ed impatto e non sarebbe piaciuto. Infatti, per me era solo una brutta copia eseguita velocemente, ma quando l’ho mostrata a Giancarlo Norese e a Cesare Pietroiusti, con l’unica intenzione di mostrare i dati, hanno manifestato un tale entusiasmo che in parte mi sorprese, e verso il quale non ero preparato, specialmente da loro che in genere erano sempre gratuitamente severi nei confronti del mio lavoro. Ma ciò ha fatto sì che, anche questo, sia diventato uno dei miei ricordi piacevoli legati al Progetto Oreste (1997-2001).

 


 

Come è stata l’esperienza della Biennale?

È stata un’esperienza piena e molto costruttiva. Quell’anno facendo parte del gruppo operativo di Oreste passai moltissimo tempo a Venezia, e oltre aiutare lì dove vi era bisogno, mi occupai e organizzai in particolare la presentazione dell’Album di figurine di Oreste Uno di cui ero autore (ne ho parlato sopra) che si tenne alla libreria/bookshop Patagonia a Dorsoduro 3490/b. Presentazione e diffusione che continuò poi nella nostra sala ai giardini della biennale. Ho poi organizzato e curato con Piermario Ciani e Vittore Baroni (The Stickerman Museum di Viareggio) quello che credo possa considerarsi il primo convegno/evento sugli stickers d’artista che intitolai: “Adesivi urbani autoprodotti”. Ricordo che durante e dopo l’incontro la nostra sala si riempì di adesivi attaccati ovunque straripando anche nelle sale limitrofi, nonostante avessi in realtà predisposto dei pannelli di compensato e un telo di plastica dove attaccarli, ma che furono all'istante ricoperti. Ho conservato alcuni di questi pannelli che possono considerarsi in qualche modo storici. Anche questo credo sia stato probabilmente il primo bombing adesivo effettuato in un contesto artistico e non solo. Vi era pure un contenitore colmo di adesivi dove chiunque poteva prendere quelli che voleva o allo stesso modo poteva lasciarne degli altri sempre in distribuzione. Durante la partecipazione alla Biennale di Venezia si è svolta nell’estate anche la 3° edizione della residenza di Oreste alla quale partecipai soggiornando per una settimana e nella quale ho dato vita e realizzato la mia performance "Un'emozione d'oro" (“A Gold Emotion” in inglese) dove dopo la performance di una serie delle mie famose smorfie tracimai in un pianto che mi auto-procuratomi, durante il quale rimasi immobile di fronte a tutto il pubblico presente composto prevalentemente dai partecipanti alla residenza ma non solo. Dopo di che lessi quello che viene ritenuto una sorta di manifesto, ma che tale non è, riguardante il mio progetto C.U.S. Cerca ed Usa le Smorfie. Durante la 4° residenza di Oreste, ho invece organizzato la “Cinesiesta” una rassegna durante la quale si vedevano dei film (in versione VHS recuperati qui e lì) particolarmente interessanti consigliati dai vari orestiani. I film che vennero proiettati erano stati scelti nei mesi precedenti a seguito di un lungo scambio epistolare via e-mail, al termine di ogni visione nacquero appassionate discussioni. Ricordo che essendo presente alla residenza un vero e proprio regista ci balenò per la mente la bislacca idea di realizzare un film, ma rinunciammo quasi subito a questa più che ardita idea. Dopo la biennale le persone che in qualche modo avevano partecipato ad Oreste erano moltissime ed io tentai anche una sorta di censimento fotografico che ho pubblicato su un numero speciale della rivista d’arte Juliet (come allegato al n.97 dell’aprile 2000) curato per quell’occasione proprio da Vittore Baroni e Piermario Ciani.

 

Cosa ha segnato la fine di Oreste? 

Come ho già detto in altre occasioni uno dei motivi risiede sicuramente nel fatto che, specialmente dopo la partecipazione alla Biennale di Venezia, coloro che volevano partecipare a Oreste erano diventati così tanti, e non solo dall’Italia, che organizzare le residenze era diventato un impegno enorme. Vi erano poi tutti gli eventi collaterali di Oreste, e gestire tutto questo era diventato troppo difficile e impegnativo per tutti noi. Inoltre, come sempre succede nei gruppi d’artisti, specialmente se numeroso come era quello di Oreste, dopo un po’ di tempo nascono inevitabile delle incomprensioni reciproche dettate il più delle volte da aspettative disattese dell’uno o dell’altro.

 



Quale è oggi la sua eredita?

Credo abbia contribuito a far crescere la curiosità e l’interesse nei confronti dell’Arte Relazionale e le sue pratiche, ma voglio rispondere a questa tua domanda con la domanda che mi ha fatto la curatrice Simona Carbone in occasione della mostra “No, Oreste, No!” tenutasi nella Project Room del MAMbo di Bologna nei mesi di marzo e aprile 2019, e che ha ripercorso la vicenda del Progetto Oreste attraverso i materiali che lo riguardano. La mostra era accompagnata anche da una pubblicazione all’interno della quale nell’intervista Simona mi fa questa domanda che penso sia quanto mai indicativa e rivelatrice di quello a cui ha contribuito un progetto come quello di Oreste: “Leggendo gli atti del convegno al Link di Bologna nel 1997 Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa?, emergono tanti temi interessanti come la formazione dell’artista, la sua relazione con il mercato ma soprattutto con il mondo dell’informazione, le diverse riflessioni sulla quotidianità come soggetto dell’opera e sul soggetto stesso produttore dell’opera, ovvero l’artista e la sua identità. Sono passati più di vent’anni da allora, sembra che il mondo dell’arte si faccia ancora le stesse domande, ne convieni o no?”

Sì! O poco più fu la mia concisa risposta, ed aggiungo che ora che probabilmente è per questo che sarebbe stato utile che il Progetto Oreste in qualche modo continuasse. Oreste ha dato una nuova visione sulle residenze d’artista dando vita così a format di residenze innovative. Residenze di artisti se ne facevano anche prima di Oreste, ma le modalità erano diverse; erano residenze chiuse in sé stesse a uso e consumo dei soli residenti. Invece, Oreste era aperta e inclusiva. Ma il più grande merito di Oreste credo sia stato quello di creare intorno alle vicende delle residenze un entusiasmo che prima non c’era. Per questo in realtà Oreste non è mai stata una semplice residenza d’artista ma è stato più esattamente quello di cui parla S. Carbone nella sua domanda, e questo Harald Szeeman l’ha immediatamente capito ed è il motivo per quale ci ha invitati alla Biennale di Venezia. 



Ti aggiungo qui anche dei link dove potrai trovare altre informazioni riguardante il Progetto Oreste, ed essendo da me scritti puoi utilizzare se ne hai bisogno.

Il progetto Oreste raccontato da Pino Boresta:

https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2019/06/mostra-progetto-oreste-mambo-bologna-pino-boresta/

Chi è Oreste? di Pino Boresta:

http://pinoboresta.blogspot.com/2009/09/chi-e-oreste.html 

Oreste è maggiorenne:

http://pinoboresta.blogspot.com/2020/05/oreste-e-maggiorenne.html

PROGETTO ORESTE (1997-2001):

http://www.cagliariartmagazine.it/progetto-oreste-1997-2001/

Tutti hanno giocato da liberi tornanti:

https://www.piziarte.net/boresta2.htm



In foto: una bustina delle figurine dell'Album di Oreste Uno, collage di alcune figurine di momenti conviviali dell'Album di Oreste Uno, pubblicazione dell'Album di Oreste Uno sul Libro di Zerynthia, una mia tabella statistica fatta a mano, una riunione del gruppo di Oreste a Bologna, collage di figurine dell'Album di Oreste Uno.