venerdì 1 febbraio 2013

Marchio d’artista di Pino Boresta


Ariecco la finanziaria



"Questo tipo d'arte che fa lei ha senso venderla? Se così non è, come fa un artista a sopravvivere?". Questa la domanda di una studentessa americana al termine di un mio incontro tenuto al VIU - Venice International University a Venezia nel 1999 invitato da Kristine Stiles. Se ricordo bene credo di essermela cavata con un "Non posso certo pensare a tutto io", e giù risate. Da quel momento in poi quella domanda incominciò a rimbalzarmi da una parte altra della testa esattamente come nel preistorico videogioco del ping pong della Atari. Purtroppo sempre più spesso gli artisti diventano marchi di fabbrica proprio come avviene per i gruppi finanziari e il valore di un’opera d’arte non è più determinato dal valore del loro operato ma da altri discutibili fattori. Dobbiamo rassegnarci a questo stato di cose o esiste una possibilità d’inversione di rotta? E se fosse fatta una gestione meno mafiosa e più democratica del reddito nazionale pubblico destinato all’arte? E se fosse evitato l’utilizzo di denaro per la realizzazione di operazioni prive di senso? E se fosse impedito che ci sia una minoranza di persone a gestire le poche risorse destinate all’arte contemporanea? E se fossero evitati sprechi e operazioni prive di senso che non sono certo a favore della comunità artistica? 


Ma ariecco la finanziaria e quel poco, pochissimo del reddito nazionale pubblico destinato all’arte. E puntuali sorgono le solite dispute, contese, polemiche, disamini, lamentele e controversie sulle quali non entrerò in merito pur non riuscendo a capire perché tra i tanti assessorati alla cultura che esistono in Italia sia quasi impossibile trovarne qualcuno che gestisca bene e in maniera trasparente le poche risorse messe a loro disposizione, magari consigliandosi con qualche onesto esperto del settore? Infatti, molti comuni in Italia pensano che aiutare l’arte consista nel mettere al centro di una piazza una scultura spesso orribile come quella piazzata dal comune di Colleferro (cittadina a sud della capitale) in prossimità dell’uscita dell’autostrada e che sono costretto a vedere ogni qual volta ritorno o vado a Roma. La struttura è composta da due archi in travertino, un missile bianco, e un informe pezzo di bronzo su di un piedistallo. Vi giuro che è una delle cose più brutte che abbia mai visto, non conosco l’artista né lo voglio conoscere, ma un giorno di questi notte tempo mi armo di vernice e pennello e sul grosso missile scrivo “Ma quando cazzo parte ‘sta supposta?”

Pubblicato su; "Juliet" n. 151 February – January 2011

In foto: Monumento di Colleferro, Kristine Stiles.

Nessun commento: